macachi nella nebbia, effrazioni nella notte, sentieri nella selva

"leggo all’indietro le cose che scrivi, la storia speciale in cui ti
trovi ad aprire forme di contatto particolari. e dietro quello che
succede ci sono le montagne, sacre tra le loro nuvole, dove il sacro
ognuno lo trova in un diverso fascio di rami."

da una (bella) lettera. 

Prendetevela comoda.

Il parco di Emei Shan e’ una delle mete turistiche principali dell’intera cina. Sul suo territorio si estende una foresta tropicale smisurata e ricchissima. La zona e’ ricca di acqua. Il viaggio in pulman da chengdu e’ un susseguirsi di risaie, l’umidita’ si fa sempre piu’ intesa. Quando arrivo a Emei, la cittadina prevedibilmente ai piedi del monte, una ragazza che ha viaggiato con me decide di aiutarmi (mannaggia a lei!), e quando arriva il suo amico di emei, compagno di studi, andiamo a cena insieme, con la promessa che mi aiuteranno a trovare un albergo. Mangiamo nella strada dell’hao chi, del buon cibo, una strada disseminata di bancarelle e tendoni sotto i quali si mangia ogni sorta di prelibatezza locale, cartilagini e zampe di pollo, strisce di tofu, peperoni, interiora di varie bestie il tutto montato su stecchini di lunghezza (e conseguentemente prezzo) variabile. Indovinate chi paga? Loro, neanche a dirlo.

Dopo cena parte la frustrante ricerca dell’albergo: il ragazzo, simpatico ma decisamente poco sveglio, punta subito al superalbergo scintillante con grande scritta in inglese: Emei Power Hotel. Megalomania, o forse un modo di reinvestire i soldi da parte di una qualche compagnia energetica della zona (ne ho visti diversi di power hotel, electric company hotel e simili… i percorsi del denaro da queste parti sono piuttosto particolari). Lo fermo subito, e gli faccio capire che anche se ci fossero delle stanze (cosa piuttosto probabile, visto che col terremoto l’alta stagione in arrivo e’ diventata improvvisamente una stagione cadaverica), sarebbero al di fuori della mia portata. Anche perche’ non ho mai speso piu’ di 80 kuai per una stanza, in cima a huashan e senza alternative, ne’ ho intenzione di farlo. Mi portano ad un albergo per cinesi. Gia’ meglio: sul cartello dei prezzi leggo un 40, che probabilmente e’ per una stanza a ore, ma questo vuol dire che si puo’ contrattare abbastanza. E invece no, non accettano stranieri… per la mia sicurezza. Cerco di evitare di incazzarmi come una furia, anche perche’ la ragazza e’ gia’ abbastanza mortificata (scrivero’ un giorno sulle manifestazioni cultural/emotive femminili da queste parti). Mi portano in un altro posto, "che di sicuro accetta stranieri, ma economico". Vogliono 120 a notte. I miei accompagnatori sembrano soddisfatti, e io inizio a pensare molto male di loro, e nemmeno contrattano! Al che penso semplicemente che siano delle spie della proloco. Usciamo e cerchiamo per cinque minuti un altro posto, ma loro non hanno idea, lui inizia a sminchiarsi (comprensibilmente, visto che lei invece sembra voler continuare all’infinito), e io invece sono sereno come un neonato, al punto che per levarmeli dai piedi torniamo all’ultimo posto, dove per curiosita’ contratto fino a 80, mi faccio mostrare la stanza e con garbo li mando in culo, non prima di avergli detto che forse sarei tornato. Mi infilo in un internet point e invece di farmi una partita cerco informazioni su ostelli a emei. Poco dopo trovo il numero di telefono di un posto di cui avevo sentito parlare a chengdu. Con 30 kuai sono a letto sereno e contento.

dopo un’abbondante colazione, verso le dieci, mi incammino. Dal Teddy Bear Hotel (ebbene si’) arrivo abbastanza presto al primo tempio, che salto a pie’ pari come tutti gli altri (ormai ho le gonadi sature di budda d’oro a otto braccia tre teste e quattro occhi, e mi chiedo solo perche’ non gli facciano anche un bel carapace verde), e da li’ mi ritrovo in compagnia di un giovane cinese, relativamente anglofono. Saliamo entrambi e in un paio d’ore arriviamo alla "monkeys ecological area". Sul percorso, tutto lastricato, tutto a gradini, diversi cartelli avvertono di fare attenzione alle scimmie, di non dar loro da mangiare, di tenere i propri oggetti ben riposti che altrimenti le scimmie se li portano. Macachi tibetani, endemici nella cina, cosi’ recitano i cartelli (chissa’ cosa ne pensa il dalai la mi fava). Passiamo un paio di ponticelli, costeggiamo un ruscello sul fondo di una gola, fresco. C’e’ un porticato, e un paio di indigeni che lavorano qui. Sopra il porticato, un macaco si avvicina. Appena se ne accorge, uno dei due indigeni estrae una fionda, carica un sasso, e spara una legnata sulle costele del macaco che tosto si ritrae (eh si’ ho letto Tasso). Poco oltre veniamo accostati da diversi personaggi locali che vogliono venderci bastoni e semini, e fanno di tutto per farci passare la voglia di procedere oltre: le scimmie sono pericolose, la strada e’ pericolosa, tua madre e’ pericolante. Insieme a loro si avvicinano anche alcune scimmie, piuttosto tranquille. Uno degli indigeni da’ un semino ad una di loro, sperando di convincermi a fare altrettanto dopo aver comprato i suoi semi. Io maneggio la canna di bambu’ che ho raccattato in un cantiere prima di iniziare la salita, tengo lontane scimmie e umani. Il cammino e’ li’ davanti a me, da dietro una curva sbucano sei sette turisti cinesi e due guide, che fanno grandi versi col bastone verso le scimmie, nominalmente pericolose ma di fatto non molto interessate. Mi avvio, e subito tutti iniziano a gridarmi dietro, non andare, e’ pericoloso. Il ragazzo che e’ con me ha addirittura il coraggio di afferrarmi il braccio: sono tentato di fare un po’ di tui shou degli orsi ma mi limito a liberarmi e a guardarlo male. Lo invito a venire, ma lui risponde che e’ troppo pericoloso. Evito di mandare tutti in culo, anche perche’ non so come fare in cinese, e procedo. Le grida continuano per pochi passi, poi tutti tornano a vendere semini e canne di bambu’.

Parentesi (vi avevo avvertito di prendervela comoda, io il treno ce l’ho tra un bel po’): la soglia di percezione del pericolo dei cinesi, ormai mi sento di azzardare questa generalizzazione, e in particolare dei giovani, e’ veramente bassa. Io sono un cazzone patentato, e questo passi, l’idea di infilarmi per sentieri non tracciati, arrampicarmi su rocce umide in ciabatte di plastica e simili non mi ha mai spaventato, al contrario. Risultato di una sana educazione all’attenzione e all’avventura, direi. I giovani cinesi invece… appena viene detto loro che qualcosa e’ pericoloso, abbassano la testa e voltano il culo. Non hanno, a quel che ho potuto vedere, la minima attitudine al rifiuto dell’autorita’ cognitiva, altrimenti detto: accettano tutto quello che viene detto loro. Inoltre, sono terrorizzati dal contatto fisico "violento". Questo l’ho visto sul treno, all’ostello a xi’an, dove stavo per dare una pacca sulla spalla a un ragazzo che ha fatto un balzo all’indietro e mi ha guardato come se fossi stato una tigre a piede libero, qui a emei… dovro’ tornare sulla questione, anche in questo post, pero’ e’ notevole. Chiusa parentesi.

Nel frattempo l’umidita’ ha raggiunto livelli che non ricordavo da tempo: tolgo immediatamente qualunque cosa abbia in tasca e la infilo nello zaino per evitare che si appiccichi tra gambe e pantaloni e s’infradici. Man mano che salgo, la nebbiolina si fa nebbione, denso e immobile: la voglia di fare foto scompare insieme al ricordo dei cieli tersi. Mi fermo a mangiare all’ennesimo capanno con telo blu bianco e rosso come quelli degli sfollati (questi teli devono essere il primo prodotto del mercato interno cinese, mi viene da pensare), gestito da un simpatico vecchino, simpatico almeno finche’ non scorgo una processione ritratti di cristi e madonne su una parete. Ma ormai e’ tardi, ho gia’ ordinato. Possibile che pure su una montagna sacra buddista devo finire da dei cristiani?! Il resto del percorso sono scale in solitaria. Tempo per riflettere, tempo per venire assalito da canzoni che non ho mai voluto ascoltare e cerco di scacciare dalla testa, tempo per pensare alla giusta postura, alla distribuzione del peso sul piede e sulla caviglia, all’apertura del torace e alla corretta ossigenazione, tempo per ascoltare e ascoltarmi.

Mi interrogo sulla sacralita’ di queste "montagne sacre", ben lontana per me dal semplice essere ricoperte di monasteri e templi. Il sacro non mi appartiene e perfino mi irrita, ma non posso nascondere il richiamo esercitato da certi posti, a partire dal casereccio camaldoli. E il pensiero s’inverte, queste montagne sono potenti e lo mostrano nel loro manifestarsi, e penso a wutai shan, a camaldoli, a Hua shan e a emei. Diverse sfumature, diversi territori e biotopi, diverso qi. Ma sempre molto potenti. Effettivamente Wutai, quella da cui sono rimbalzato prontamente, mi resta sul gozzo, e vorrei tornarci, se solo risuscissi ad eliminare tutto il contorno.

La nebbia s’infittisce, ma di scimmie ormai neanche l’ombra. Passo un tempio via l’altro, la strada non e’ per niente pericolosa (maledetti cazzoni giu’ a valle), quando si fanno le cinque gli indigeni, quando chiedo indicazioni, si fanno sempre piu’ restii a rispondere e sempre piu’ insistenti perche’ io mi fermi li’ da loro. Uno quasi lo smuso, tanto e’ aggressivo. Continuo a salire, gradino dopo gradino, refrain dopo refrain, e mi scopro soddisfatto delle mie gambine che tutto sommato sembrano reggere. Solo, procedo al mio lento passo, mi fermo pochissimo e non mi siedo mai. Alle sei e mezza incontro un altro ragazzo che avevo abbandonato prima delle scimmie, e che e’ passato per il percorso breve: mi dice che sono velocissimo, che ho fatto dieci chilometri piu’ di lui. A me sembrava di andare, appunto, piano. Ma anche questo e’ tipico: i cinesi qui come su hua shan partono a razzo e si fermano ogni tre passi. Gli unici che procedono lenti e regolari sono i portatori (no, non scheggiano, semplicemente non si fermano. MAI). Lui si ferma li’ pochi metri oltre c’e’ la "piscina dell’elefante a bagno", l’unico tempio in cui poi incontrero’ un monaco, inaspettatamente simpatico nella sua pacatezza.

[Poi noblogs mi slogga mentre scrivo, diocane, e perdo un pezzo consistente di post, nonostante salvi spesso.]

Parlo col ragazzo di quanta strada possa ancora fare. Ci saranno ancora, al piu’, un paio d’ore di luce, posso fare ancora qualche chilometro. Lo saluto e riprendo a salire, la nebbia e’ sempre piu’ fitta, finche’ non incontro lui, crepuscolare, e mi fermo. Troppo.

Scatto questa foto pensando a mia madre. Non e’ una fotografa, ma ha scattato alcune tra le foto piu’ belle che ricordi, foto di alberi. Questa foto e’ per lei. Dopo aver scattato diverse foto, la luce ormai si e’ diradata, la nebbia si e’ infittita, ancora. Il sole splende a picco sulle vostre teste, ma qui non se ne vede piu’ traccia. In compenso inizia a piovere, prima delicatamente poi no. Fortuna che ho la fedele lampada frontale con me, utile quanto gli abbaglianti in piana padana: appena l’accendo, davanti a me si staglia un muro bianco di nebbia e pioggia. E’ uno dei rari momenti in cui sono grato alla guida da tre chili che mi porto dietro (ma non oggi), che raccomandava di portarsi l’ombrello sull’emeishan. Ormai procedo con quel poco di luna che filtra tra nebbia e nuvole, poi neanche quella, non vedo a piu’ di tre metri. Solo, a volte si staglia un corrimano bianco, pessimo segno di ulteriori ripide salite. Sono quasi undici ore che cammino, quando vedo una luce. Non so bene dove sono, grido un hue’ quando arrivo vicino a quello che potrebbe essere l’ennesimo capanno e che invece e’ un tempio, con tanto di ennesimo budda e un signore perplesso che mi guarda come se fossi uscito da una scatola di sottaceti. Sono l’unico sulla strada, per non parlare del fatto che sono l’unico occidentale nel raggio di milioni di chilometri. "Piu’ avanti" mi dice, quando gli mimo la testa sul cuscino. Piu’ avanti puo’ voler dire secoli, ma sono pochi metri perche’ veda la prossima luce. E’ un albergo, entro dentro mentre un gruppo di locali sta guardando un varieta’ alla televisione, riesco a non farmi trascinare in un insulso universo parallelo di parabole satellitari e chiedo una stanza. 150. Grazie, anche se fuori ci fossero i lupi mannari (e non mi stupirei) non restero’ qui. Chiedo per Jieyin, il tempio in cui mi e’ stato detto che accolgono i viandanti, mi indicano una direzione. Esco, devo essere in un piazzale, attorno a me nient’altro che nebbia. Leggermente scoraggiante, ma non abbastanza. Un’altra luce, una signora che sta chiudendo bottega. Le chiedo la direzione per JieYin, lei cerca di convincermi a restare. Grrr. Insisto senza ucciderla, e lei, continuando a parlare in cinese dopo che le ho detto piu’ volte che non capisco e non capirei anche se fossi laureato tre volte in cinese, e per come parla e per la stanchezza, alla fine mi indica il punto in cui riprende il sentiero. Comincia a fare freddo, mi metto la felpa. Quasi alla cieca mi faccio un altro chilometro e mezzo, con la certezza che e’ piuttosto difficile passare un tempio senza accorgersene, visto che spesso il sentiero ci passa in mezzo. Di nuovo delle luci, sara’ passata mezz’ora. Ma non e’ il tempio, e’ la stazione della cabinovia che porta alla cima i deboli di spirito e di polpacci. Al mio hue’ si affaccia un ragazzo, mimo il cuscino e lui in inglese si offre di accompagnarmi. Gli chiedo per il tempio di Jieyin, e lui gentilmente mi porta all’albergo della compagnia della cabinovia. 150, che scendono presto a 100 quando vedono la mia faccia. Non ci siamo. Gli stronzi ridono, sapendo che a quell’ora sono nella merda, e mi guardano uscire. Grrrrrrr. Il ragazzo pero’ non e’ stronzo, e armatosi di torcia elettrica industriale mi accompagna al tempio, centocinquanta metri piu’ in la’. Bussa ad una finestra della foresteria, ma non risponde nessuno. Entriamo, le porte sono aperte, saliamo al secondo piano, deserto. Uscendo, sento dei rumori dietro una porta. Busso, una faccia spunta, mi guarda, dice no no e chiude la porta. Butta male. Ci fermiamo sull’uscio, meditando il da fare, quando appare un signore con un mocio in mano. Il ragazzo e il signore parlano, mei you, mei you le. Non ve n’e’. In che senso? Troppo pieno. Ma non c’e’ nessuno! Ho fatto cinquanta cazzo di chilometri, non ho cenato, sono leggermente stanco, non c’e’ nessuno a giro e tu mi vuoi lasciare col culo per terra? Mei you. Gira il culo, entra nella stanza dell’altro tipo e chiude la porta. Per la prima volta da quando sono in cina sbrocco e m’incazzo. Gli grido dietro, in italiano, non c’e’ nessuno in questo posto del cazzo, STRONZO! Spero solo che apra la porta. Ma non la apre. Mi giro, e il ragazzo, nel frattempo, ha iniziato ad allontanarsi. Coraggioso come un leone.

Medito un attimo il da farsi, giro attorno all’edificio, la pioggia e’ diventata un diluvio. Entro da un’altra porta, salgo le scale. Provo tutte le maniglie del secondo piano, tutte meticolosamente chiuse. Salgo al terzo piano, solai, porte chiuse, un deposito di stuoie di peli di yak, porte chiuse, un letto sfondato, un letto non sfondato, senza materasso, solo l’intelaiatura di assi di compensato e stecche di bambu’ intrecciate. Prendo due stuoie, torno al letto e ce le stendo sopra. Metto il giacchetto come cuscino, prendo l’asciugamano in microfibra, praticamente carta velina, dallo zaino. Quella sara’ la mia coperta. Resta solo il problema di pisciare, non voglio tornare giu’ e nonostante tutto, gli istinti incendiari e dinamitardi e quelli omicidi, non voglio pisciargli per terra. C’e’ una scatola degli estintori, quattro estintori, li tolgo silenziosamente, la metto davanti ad una finestrella e piscio sul tetto, mentre lampi illuminano il cielo. Rimetto tutto a posto, chiudo la finestrella e mi metto, finalmente, a letto tutto vestito e mezzo fradicio. Alla faccia loro. Sono quasi le dieci. Mangio le ultime poche noci (sempre, sempre portarsi dietro delle noci) e spero di addormentarmi. Ma fa freddo. Inverto asciugamano e giacca, mi appallottolo in posizione fetale, mi addormento nonostante il casino infernale della bufera che ormai imperversa e picchia sul tetto come fosse una questione personale.

A mezzanotte mi sveglio, fa troppo freddo, cerco intorno qualcosa che possa scassinare una porta, un chiodo e il mio tagliaunghie, del tutto inutili. Gli allenamenti con Wang sono serviti, pero’. Con una spallata sfondo la serratura e davanti a me si spalanca il paradiso: tre letti, tre cuscini, sei coperte. Prendo un cuscino e una coperta e torno al mio letto, cui ormai mi sono affezionato. La sveglia e’ alle quattro e mezzo, non voglio rischiare di farmi beccare in zona, e se il cielo lo permette, voglio ancora arrivare alla vetta e guardarmi l’alba.

Il cielo non lo permette. Quando scendo le scale non capisco se stia ancora piovendo o se quello che sento e’ solo il rumore dell’acqua che sgronda, ma appena esco non ci sono dubbi. Non posso far altro che raggiungere la stazione della cabinovia, tanto per non restare sul luogo del delitto, e allenarmi. Stretching e posizioni statiche, quelle del taiji che poi non sono altro che alcuni palmi di bagua tenuti piu’ comodamente, un po’ di shili. Un’oretta, sono quasi le sei. Riguardo e sistemo le foto. Albeggia. Pace, l’alba sulla cima del monte l’ho gia’ vista a Hua shan. Scendo a Leidonping, il posto poco piu’ a valle, e meraviglia, in uno dei tanti ristoranti sul piazzale si aggira una figura. Mi scofano un piatto di spaghetti in brodo con carne e verdure con ampia soddisfazione, e con altrettanta gioia abuso del cesso del ristorante. Mi rimetto in cammino, scendo e il ginocchio destro inizia a lamentarsi. Dove avevo incontrato il ragazzo lento incontro un altro ragazzo, che mi invita a scendere con lui. Ma e’ troppo piu’ rapido, si e’ fermato prima di me e non ha problemi alle gambe, mentre i lamenti del mio ginocchio si sono fatti piu’ frequenti. Ma figuriamoci se non mi aspetta. Qui il problema non e’ fare amicizia, e’ restare per cazzi propri. Nonostante gli dica che non posso scendere in fretta, lui mi resta accanto, ma mantiene un ritmo che non sostengo a lungo. E allora procediamo a elastico, mi stacca e poi mi aspetta, scambiamo due parole e ripartiamo e via cosi’. Davanti a noi vediamo una ragazza locale, si riconosce da come e’ vestita (non "da montagna") e dalla scioltezza con cui scende. Ci fermiamo tutti e tre ad un baracchino, loro si mettono a parlare con la signora, io guardo il panorama e riposo il ginocchio. Poi la ragazza fa per rimettersi in marcia, ma non per la solita cazzo di strada pavimentata e gradinata, bensi’ per un sentiero dirupante giu’ per un vallone, sentiero che neppure avevo visto. Le chiedo dove va, esattamente dove voglio andare io. E se c’e’ una cosa che ho imparato, e’ che i locali, they know better, la sanno meglio. Faccio per scendere anch’io, ma la signora del capanno interviene (ma ogni tanto la gente si facesse i cazzacci suoi…), no li’ e’ pericoloso, no li’ non puoi andare. Guardo il ragazzo e lo invito a scendere per quel sentiero. Scuote la testa, no, e’ troppo pericoloso. E allora ditelo! La situazione e’ talmente demenziale che la ragazza, per tagliare la testa al toro, fa per abbandonare il sentiero e venire con noi, al che taglio io la testa al toro, e metto un piede a bloccarle la strada e far capire che io scendo di li’, comunque. Il ragazzo, neanche a dirlo, non se la sente. La ragazza capisce le mie intenzioni e comincia a scendere, la seguo, nonostante la vecchia che continua a ragionare. E comincia cosi’ l’ultima parte di questa avventura, col ginocchio dolente, giu’ per un sentiero che non perdona.

Piu’ che un sentiero, sono gradini pure questi, ma di pietre messe li’, o scavati nella terra, ricoperti di foglie umide e di muschio. Seguo i passi di lei, che scende IN TACCHI, serena come uno stambecco, ma ho solo due occhi, quando guardo dove metto i piedi non vedo dove li ha messi lei e viceversa. Riesco a non finire col culo per terra, ma piu’ volte sdrucciolo e lei si gira preoccupata e poi sorride o se la ride. E’ la felicita’, aver abbandonato finalmente quei finti sentieri per orde turistiche e scendere dove nessun uomo bianco e’ mai passato prima (o forse no, ma nessuno e’ li’ a dimostrarmi il contrario e il mio ego si pompa). Il ginocchio pensa che sono un coglione, ma gli dico di stare zitto e seguo la ragazza. C’e’ una tecnica, nel suo calare. All’inizio seguo solo i suoi passi, ma poi capisco come funziona, dove appoggia i piedi, come piega le ginocchia e come si volta. Adatto la cosa al mio ginocchio, portando il peso sempre sulla gamba sinistra, e la discesa diventa ancora piu’ soddisfacente. La foresta e’ diversa, il sentiero ci passa in mezzo con altro andare (ire), poi incrociamo un ruscello e i sassi su cui scendiamo sono quelli del ruscello. Costeggiamo dirupi senza nessun corrimano, guadiamo altri ruscelli, dove lei ogni volta si sciacqua il fango dalle scarpe, non incontriamo nessuno fino in fondo al vallone, dove la discesa si fa piu’ gentile. Il ruscello, ormai lontano, e’ diventato un seme di fiume, e se ne sente il rumore sempre piu’ forte. Quando butta via il suo stecchetto, capisco che ormai il piu’ e’ fatto. Di li’ a poco arriviamo in una zona totalmente nascosta ai turisti, piena di colline terrazzate e orti. Gente sparpagliata, ceste sulla schiena e cappelli in testa, raccoglie le foglie di quello che potrebbe essere te ma a me sembra alloro. Il sentiero e’ una passeggiata, lei sempre davanti si ferma e ci facciamo una foto col suo cellulare, proseguiamo e per quasi un’ora colline coltivate orti e tanta acqua, qualche casa, sparse figure che ci ignorano salvo poi voltarsi quando siamo passati. Memorie della Colombia, benessere. Arrivati al tempio di Wainan la saluto, mi avvio alla stazione dei pulman e sono felice quando mi chiedono 40 kuai per dieci minuti di strada.

Ho appena incontrato due ragazzi francesi che la notte prima di me hanno trovato da dormire a Jieyin, non al tempio, per 30 kuai a testa. GRRRRRRRRRR.

3 responses to “macachi nella nebbia, effrazioni nella notte, sentieri nella selva”

  1. otted

    ahahha ma รจ stupendo :)
    saluti ai folletti dietro il grande albero!

  2. ET

    Grazie, di cuore. E onore a te, per la magia e non solo

  3. Vera

    Che bellezza… l’albero, la notte a frodo, tutto. Che bellezza :-)