trilogia della primavera – primavera (ehbè)

Va tutto bene.
Gli alberi sono la forma di vita dominante del pianeta, l’uomo si sta impengando a prenderne il posto. L’uomo non sa più stare al suo posto. Questo porta disgrazia. Craaaa!
Nel frattempo, sotto casa mia sono fioriti i glicini. Già.
La primavera arrivata. E’ troppo facile, e un po’ difficile.
La cultura cinese è di una profondità quasi insondabile, ma la cosa più bella è che in questa profondità non si può sperare di tuffarcisi a pie’ pari. Non si farebbe altro che rimbalzarne via. La leggerezza, sostenibile con esercizio e attenzione, sembra essere una chiave di accesso, come per gli scudi di Dune, che possono essere penetrati solo con un movimento lento e continuo del pugnale.
Non ho ancora capito bene come funziona, ma a primavera le ragazze si vestono molto poco. Dovreste vedere il bianco della pelle di alcune ragazze, non necessariamente cinesi, per capire le oscillazioni tra il coprirsi e lo scoprirsi, altro che pugilato. Invece, l’altro giorno, passando in bici per la Yunda (Yunnan Daxue, università dello Yunnan, che ha un parco bellissimo pieno di alberi in fiore che mandano un profumo stordente), ancor più numerosi del solito giovani maschi giocavano a basket, si stiravano, esponevano le ascelle. Chissà che roba stiamo respirando in questi giorni, di sicuro è intensa.
Comunque li capisco i giovani che giocano a basket. Cosa dovrebbero fare, taiji? Ah. Kungfu? La maggior parte di quello che si vede a giro è ginnastica acrobatica, alle ragazze non piace guardarla e ancora meno farla. Da un punto di vista pratico è del tutto inutile. Da un punto di vista salutare è più faticoso del fare un po’ di ginnastica per mantenersi in forma.
Le origini del taiji sono un ottimo terreno su cui lasciare a pascolare un esercito senza bersaglio. Il mio amico Solimano mi racconta le origini del taijiquan, come le ha raccontate a lui il suo shifu 师傅 (maestro): questo generale, Cheng qualcosa, dopo anni di campagne se ne torna al suo villaggio, a quanto pare senza troppa voglia, ha studiato tutte le tecniche di lotta del momento e un po’ si duole del fatto che a quanto pare senza di lui andranno perse. E allora si mette a insegnare nel suo villaggio, e tira fuori il taijiquan. Ah. "All’epoca, mi dice Solimano, era molto diffuso il cannon boxing", o 炮拳, baoquan. Questo, sottinteso, dovrebbe spiegare i famosi movimenti "esplosivi" dello stile Cheng, che lo rendono il più evidentemente marziale.
Nelle due ore di chiacchere in terrazza che ci siamo concessi, mi parlava di struttura, concetto che si ritrova pari pari nello yiquan. Diceva anche che il governo cinese ha, qualche anno fa, riconosciuto ufficialmente Cheng Jiagou, il villaggio del signor Cheng di cui sopra, come il luogo in cui è nato il taijiquan, aggiungendo che "poi chi ci crede al governo". L’amico Solimano, padre musulmano indo-pakistano e madre ebrea di origini russe, per non avere problemi si è dato al buddismo, diceva ridendo. Non mi sono stupito che non mi abbia parlato del daodejing. O di qi.
Ieri invece ho reincontrato un allievo dell’altro famoso maestro di kunming, lui stile Yang. Ci eravamo lasciati cortesemente questa estate che lui dopo cinque anni doveva tornare in francia. Mi aveva fatto notare che non ero molto piaciuto al suo maestro, ma che se avessi voluto comunque avrei potuto provare a studiare con lui. Lungi da me voler dare fastidio a qualcuno, di lì a poco avrei conosciuto un francese simpatico che oltre a offrirmi una canna mi avrebbe fatto conscoscere Yang Laoshi. Comunque, quando ho reincontrato Pascal, ho provato un momento di gioia profonda. Sono più sensibile a chi spende, se non sacrifica, cinque anni della propria vita in un paese straniero allenandosi duramente, che alle storie degli allievi dei rispettivi maestri che si vogliono menare, di quell’allievo che lascia un maestro per andare dall’altro creando così delle lievi increspature nel tessuto marziale della città (tutto considerato, un’altra comunità come quella degli stranieri), e cose di simile poca importanza. Pascal, gentilmente, mi ha chiesto se fossi rimasto qui tutto il tempo, sì ho visitato la mamma ma niente vacanze, e con chi mi stessi allenando in questo momento, che allora mi allenavo ancora con il signor Du. Quando gli ho detto che mi allenavo con Yang Laoshi il suo qi è un po’ salito.
A sera ho incontrato troppa gente. Che per la mia delicatezza costituzionale è piuttosto impegnativo. Compleanno di una amica e ritrovo al the box, (box populi) il baretto locale o almeno la cosa che più si avvicina a un accogliente baretto (nonostante alcuni cocktali costino più che dallo strizzi, cosa che a me comunque fa poca differenza per quello che bevo). Colgono l’occasione di venire a rendere omaggio alla festeggiata anche dei comuni amici cinesi.
Cos’è il dao? Non lo so, ma è notevole che la maggior parte degli stranieri non abbia interesse a rendersi conto che la cortesia dei cinesi non è unisemica. Dietro alla stessa forma si celano essenze diverse: la persona che apprezza è in grado di leggere i diversi movimenti che animano le stesse forme. Non so se c’è un nesso tra la consegna del secondo regalo e la dipartita degli stranieri, ma il primo regalo, quello di Zhi Yuan (ve lo ricordate Zhi Yuan?) era molto bello: una bottiglia vuota con tre sezioni di spago blu, bianco e rosso ordinatamente arrotolati sul collo, e un laccio da scarpa rosso infiocchettato in cima. Decorativo, come ha riconosciuto la destinataria.
Azzarderò perfino un accenno al mio regalo perché ha avuto una genesi interessante: inizialmente volevo regalare un vestito alla festeggiata, perché l’altro giorno sono entrato nel negozio di vestiti di una amica e, immediatamente, ho visto un vestito che volevo regalare a Sachiyo. Visto e messo da parte (che non avevo i soldi dietro). Quindi sono tornato lì, ma l’amica Winsun, hongkongina trasferita qui, non c’era. Questo me l’ha comunicato senza che ancora fossi sceso dalla bicicletta una ragazza in inglese perfetto da sotto i suoi occhiali appena calati sul naso, mentre chiaccherava con due amiche, sembrava una scena leggeremente aggiornata dei ritrovi delle signore di shanghai in Lust Caution. Ho voltato il culo e sono andato via, ma dopo cinque pedalate sono tornato indietro, mi sono tolto il berretto, spazzolato i vestiti con le mani e sono entrato. L’atteggiamento delle amiche è cambiato, la ragazza si è alzata, avendo capito che si trattava di fare il suo, ed è cominciata una meravigliosa esperienza di shopping psicoemotivo lievemente proustiano.
"E’ che sto cercando un regalo per il compleanno di un’amica, è un’amica da cui sono stato un po’ distante ultimamente ma vorrei che sentisse che non porto risentimento (I have no grudge)." E la ragazza ha capito. Ha capito che non cercavo qualcosa di scollato, anche se a un certo punto si è divertita a ripeterlo a parole, indicando un paio di camicette da notte piuttosto trasparenti e dicendo "allora, non quel tipo, no?", mi ha mostrato vestiti, giacche, e io pensavo alla festeggiata e cercavo di capire cosa stavo cercando, cosa volevo dirle con quel regalo, mi ha mostrato una camicetta che per quanto carina, per quanto gliela avrei vista bene, c’era qualcosa che non capivo, poi boh, ho visto l’etichetta, comme des garcons, e mi sono chiesto se stavo veramente pensando di voler dire  quello della mia amica. Allora mi sono scusato di aver fatto perdere tempo alla commessa così gentile, dicendole che era molto difficile per me scegliere in quel momento, e lei mi ha detto che non c’era nessun problema, ma che se proprio volevo regalare un vestito alla mia amica potevo sempre portarla nel negozio e lasciare che fosse lei a scegliere. Le ho voluto molto bene.
Poi ho avuto un’illuminazione! Avevo recentemente stampato una foto non mia, piuttosto bella, 70 per 50 più o meno, un albero che cresce sulle rovine di una struttura ad angor wat, cambogia. Il risultato era più che dignitoso, e ho pensato che sabato alle cinque e mezzo non ci sarebbero stati problemi a stamparmi una foto 100 per 70 per l’ora di cena. Sono passato dal laboratorio, chiudete alle 9? Sono tornato a casa, un po’ freneticamente lo ammetto mi sono messo su una foto che avevo fatto al lago, in un’ora era pronta, un file di 360 mega che l’altra volta si erano mostrati appena perplessi che gli avevo portato un file piccolo. Tornato al laboratorio ci siamo messi al solito computer, con lo schermo finito che i colori veramente finiti. C’era solo il laoban (capo di un’attività) e signora, la signora ha lasciato il posto al laoban quando ha capito che si stava andando su formati grandini, il laoban non riteneva che il file da stampa (70 mega) che gli avevo portato andasse bene, io cercavo di dirgli che i colori non si vedevano mica tanto bene su quello schermo, e allora abbiamo cambiato computer. Una nota sui computer cinesi: la ram. Normalmente i computer cinesi hanno 256 mega di ram (!), ne ho trovato uno che ce n’aveva 128 (!!). Devo dire che in quel laboratorio, la ram non manca, e i processori fanno il loro dovere (sfortunatamente poi da digitale stampano con getto d’inchiostro, per ora m’accontento). Comunque sia, l’altro computer aveva il desktop pulito, il monitor brillante, e viaggiava  a dovere. Il file da 360 mega era indiscutibilmente appropriato (heshi, 合适), già delle dimensioni giuste per la stampa, cromaticamente a posto e piuttosto incomprensibile, essendo una foto sbilenca di mattoni nella fanghiglia verde sul fondo del lago ormai senz’acqua (mi chiedo se la usino per annaffiare le piante: di sicuro ultimamente è molto secco). Comunque sia, due giorni. A-ya (啊呀). Niente regalo, e si avvicinavano pericolosamente le sette. Non ci sono gli stampatori (cazzo, manco doveste usare il torcio, ma in realtà capisco benissimo: la prima cosa che ho chiesto alla signora è stata 吃饭了没有? Ha mangiato il suo riso? Nel senso che se vai a rompere i coglioni alle sei e mezza a qualcuno, almeno è carino premurarsi che sia a stomaco pieno mentre sta lì a sorbirsi le tue menate). Pago, questa volta facendo attenzione a custodire con molta cura la ricevuta (che l’altra signora per poco non voleva guardarmi nello zaino, la volta scorsa che me l’ero dimenticata), rimonto in bici che per tutto il tempo ho lasciato slucchettata fuori dal laboratorio (sentirsi a proprio agio in un posto) e mi dirigo verso non so neanche bene dove, verso il french caffe dove avrei dovuto incontrare zhi yuan e recuperare la torta per la festeggiata, passo davanti alla libreria "per stranieri" che ignoro, non regalerei un libro alla mia amica, non che dubiti che sappia leggere, e zac! mi passa davanti una signora in bicicletta, cappello di paglia e dietro la bici alcune piante, già di per sé molto belle, disposte con amabile grazia perché fossero acquistate. Senza vaso, un fuscello con due fiori non ancora sbocciati, di cui si intravedeva il rosso dei petali. Sicuramente la signora, bellissima con la pelle liscia, il sorriso sveglio, gli occhi limpidissimi, mi ha fatto pagare una cifra gonfiata (sono riuscito ad abbassare solo del venti per cento il prezzo iniziale), ma le coltiva lei, mi dice, e sono veramente belle le sue piante, in effetti. E poi questa idea del fiore non ancora sbocciato mi aveva proprio preso, pensando alla mia amica, per cui, infilata la pianta molto delicatamente nel cestino laterale, cadente a pezzi, della mia bicicletta sono andato al box dove l’ho lasciata vicino alla finestra, previo consenso della laoban, italiana, del posto (ancora grazie). Quindi, le ho regalato una pianta, "hay otra planta che quidar", un’altra pianta di cui occuparsi, come ha commentato la mia amica, la cui madre ha trasformato la casa (europea) in un giardino botanico.

One response to “trilogia della primavera – primavera (ehbè)”

  1. kung fu laura

    non vedo l’ora tu voglia farmi un regalo…