my first night as a bodyguard (la notte che andre se n’è andato)
"To stand still results in the mind’s settlement, mind’s settlement in tranquility, tranquility in a sense of security, security in wholesome thinking, and wholesome thinking in great accomplishment."
"Restare immobili produce l’acquietarsi della mente, l’acquietarsi della mente la tranquillità, la tranquillità un senso di sicurezza, la sicurezza un pensiero vigoroso, e il pensiero vigoroso produce grande risultato."
Qualcuno mi conosce. Mi hanno visto. Sanno che mi alleno, che studio taichi. Ieri notte ho lavorato per un piatto di funghi e un amico. Aveva degli affari da svolgere, la sua mercanzia. Quel genere di cose per cui non vuoi attirare troppo l’attenzione delle guardie, né in generale vuoi incontrare quattro o cinque tizi in un vicolo poco illuminato nella zona dei locali. Aveva questa grossa borsa blu, a tracolla, e dentro una piccola borsa di pelle marrone, a tracolla. Gli avevo tirato su due canne di fumo, autoprodotto, che a quanto dice lui non è capace di chiudere una canna, e poi ce le eravamo andate a fumare in terrazza con quattro o cinque ragazzi del luogo, chi più cinese, chi più tibetano.
Tradizionalmente, il gongfu non va mai da solo. Il gongfu non si mangia. Chi ha gongfu ha sempre una qualche occupazione. Nella cultura occidentale, gli "artisti marziali" di lavoro fanno gli insegnanti, secondo il vecchio adagio, chi non sa fare insegna. Primeggiano nelle competizioni sportive poi aprono la loro palestra e addestrano una nuova generazione di agonisti, e così via. Nel migliore dei casi sono attori.
Sebbene lo trovassero un po’ caro, il fumo del mio amico sembrava averli favorevolmente colpiti. Anch’io ero rimasto sorpreso, aveva fatto loro un prezzo appena più caro di quello che aveva fatto a me. Le due canne stavano circolando tra noi sette ad una certa velocità, quando il cinese in giacca nera aveva tirato fuori i pezzi di torta da un sacchetto di plastica velina. Ne aveva porto uno al mio amico, che l’aveva guardato e, commentato che ne aveva già mangiata in giornata, se l’era ingollato. Poi giaccanera aveva tirato fuori della merda, del puzzone napoletano, e l’aveva sottoposto all’attenzione del mio amico. Il quale l’aveva preso, guardato, annusato una prima volta, aperto con le unghie, annusato, schiacciato e rimodellato e riannusato. Era seguita una serie di domande sulla tecnica di produzione, che evidentemente non era setaccio. C’era stato un generale accordo sul fatto che fosse tirato su con le mani, tecnica tradizionale molto artigianale, molto dispersiva.
In Cina il gongfu ha molte strade e opportunità. L’insegnamento è certo una di queste, ma non l’unica e spesso non la sola. Ci sono maestri di bagua calligrafi e indovini (attività talmente redditizia che non sentono più l’esigenza di dedicarsi all’insegnamento). Ci sono i dottori, a volte con tanto di diploma, a volte solo con persone che vengono a chiedere aiuto e vengono trattate. Alcuni di questi dottori non hanno bisogno di toccare perché si senta l’effetto del calore sferico delle loro mani. Con la mano a tre centimetri dal mio ginocchio, il calore convesso di yang laoshi armonizza la mia posizione.
La canna che avevano fatto su i ragazzi cinesi col loro fumo non aveva filtro né sapore. Il fumo lo facevano loro, anche per conto di un businessman laowai per cui lavoravano in altra attività. Il mio amico veniva da lontano, e aveva considerato appropriato essere amichevole con quei ragazzi.
-Zhege yinyue, zenmeyang?
-Hai keyi.
Era seguito un intervallo in cui l’amico raccontava ai cinesi dei tunnel sotterranei che attraversano la città, come molte altre città della cina, e di come quei sotterranei sarebbero stati un ottimo posto per organizzare una festa segreta. Era stata anche menzionata la presenza di guardie armate di grandi mitragliatori e elmetto. Acidi se ne trovavano? Certo. Perché, diceva il mio amico, lui aveva presente quelle grandi tovaglie che poi vengono tagliate a strisce, che in Inghilterra o in Australia tutti i suoi amici le potevano procurare, ma che non aveva idea di come portarle in Cina. A quell’idea gli occhi dei cinesi, che avrebbero potuto procurargli uno o due acidi, forse una striscia, si erano illuminati. Ketamina? Mai bu dao. Non si compra, era stata la istantanea risposta di uno dei ragazzi che sembrava quasi aver spezzato l’onda armonica sulla quale avevamo surfato fino ad allora. Ma gli altri l’avevano ignorato, e il tibetano, col suo berretto di lana tondo e la sua felpina azzuro pastello, il tipo che aveva retto la conversazione fino a quel momento, era stato più diplomatico.
Il baguazhang, o palmo degli otto trigrammi, ha fama di essere uno stile "mistico", esoterico, profondamente intriso di saggezza taoista. Le sue origini sono misteriose, il primo che lo insegnò (e a cui ne è attribuita l’invenzione) fu un tale Dong Hai Chuan, che visse nel 19° secolo. Il maestro Dong si muoveva "come un drago spiraleggiante che cavalcasse il vento", nelle parole di un suo successore di quarta generazione, recentemente scomparso. Si dice che avesse studiato in remoti monosteri taoisti arroccati sulle impervie montagne sacre della Cina, e che fosse approdato un giorno a Pechino, senza un nome, impiegato come servo nella Città Proibita. Durante un ricevimento particolarmente affollato, l’abilità del maestro Dong fu subito evidente, mentre si muoveva tra gli ospiti senza urtarli né mai fermarsi. Gli fu chiesto di mostrare il suo gongfu, e l’imperatore in persona lo nominò all’istante istruttore di arti marziali e guardia del corpo del palazzo imperiale.
L’annuncio dell’arrivo della polizia aveva interrotto la graziosa riunione, e io, in uno dei pochi attimi in cui avevo lasciato da solo il mio amico, avevo abbandonato la terrazza ed ero andato a vedere nella sala interna cosa stesse succedendo. Vi avevo trovato un connazionale piuttosto addentro alle questioni locali che brandiva un bicchiere di qualcosa, un largo fainesco splendido sorriso e due ragazze, pure loro laowai che ballavano al beat del nuovo dj, direttamente da pechino, che aveva risollevato le sorti musicali di un’altrimenti piuttosto smoscia nottata. Il connazionale, un pr tentacolare, al soldo tra le altre del padrone del locale, mi aveva offerto da bere dal suo bicchiere, menzionando la quantità di merda che stava in soluzione. MD, conoscendo i gusti. Avevo dato un piccolo sorso e un grande sorriso, e mi ero lasciato prendere dalla musica. Il piccolo dj, un bambolino timido con cappellino e stile da vendere. In una pausa, il pr tentacolare si era fatto portare a spalla sulla terrazza, introducendomi ancora una volta alla cricca di per lo più connazionali. Il mio amico era a ballare, ma lo sapevo tranquillo. La possibilità della polizia che non lo aveva entusiasmato si era risolta nell’appuntamento rituale ad abbassare il volume della musica per una ventina di minuti, ero andato fuori trascinato dal pr che si faceva trascinare, e mi ero ritrovato in una situazione non amichevole. Neppure ostile. Una situazione non mia, in cui, come non di rado mi si faceva notare, perdevo quasi completamente l’uso della parola (inutile stare a spiegare quanto inutile sarebbe stato l’uso della parola). L’amico del pr, un fotografo, e la sua donna, mi avevano accolto come troppe volte mi era capitato in Italia, affacciandomi su un circolo stretto. A testa bassa, mi ero diretto verso il retro del bancone dove un russo, dall’aspetto rubizzo e truce mixava canzoni romantiche sul suo mp4 di marca, a basso volume, causa visita della polizia. Avevo cercato una birra, il frigo era vuoto, ma la presenza dei boccali e di una bombola mi aveva indirizzato alla ricerca della spina. Ero stato invitato dal pr a sentirmi tra pari, cosa che comunque sia non accadeva, e mi servii un fondino di birra pisciolata stancamente dalla spina poco collaborativa. I pochi commenti in proposito non arrivarono mai del tutto al mio orecchio.
Dong Hai Chuan cominciò ad insegnare, e ad avere studenti. Cinque di essi, nel corso del tempo, furono accettati come ru men, coloro che avevano varcato la soglia. Dong Hai Chuan fu inviato per diversi anni a raccogliere tributi nel NordEst, e si fece accompagnare da uno di loro. Al loro ritorno a Pechino Yin Fu, che l’aveva accompagnato per lunghi anni, aprì una scuola di arti marziali a nord della città proibita, mentre Cheng Ting Hua, il secondo grande allievo, aprì una scuola nel sud. Presto, l’attività principale delle scuole era quella di offrire servizi di protezione, scorte a convogli mercantili, e attività analoghe. Qualche giorno fa, nel cortile di casa mia la sicurezza di una compagnia veniva allenata nel piazzale solatio che precede l’imbocco sul viale. Il loro gongfu però non era particolarmente impressionante. La mia amica cinese, un tempo mio professoressa, aveva commentato i miei commenti troppo generosamente con un "nei han kan men dao, wai han kan re nao", l’esperto vede la sostanza, gli altri vedono gli abbellimenti.
Avevo brindato col pr, con un rituale improvvisato che non di meno aveva seguito con garbo, e proprio allora era arrivato il padrone, quello della birra che mi ero servito e del locale. Avevo guardato il pr mentre il padrone mi era arrivato al fianco, e sempre guardando il connazionale, avevo mosso il boccale di birra in direzione del padrone, avevo profferto un "alla sua", e mi ero girato. Il pr aveva cercato di trattenermi, ma questa volta non glielo avevo reso possibile. Il fatto che lui mi stesse simpatico non voleva dire che dovessi qualcosa a qualcuno, da quelle parti. Lui mi aveva invitato, avevo accolto il suo invito. E grazie per la birra. La sensazione non tanto di non essere in vendita, quanto di condurre gli affari in maniera diversa mi aveva accompagnato. Ero tornato nella sala interna, ed ero andato a sedermi in un punto in cui nessuno avrebbe potuto sedersi casualmente vicino a me. Un metro e mezzo due di fronte a me stava il mio amico, seduto pure lui, e vicino a lui i suoi nuovi amici cinesi. La musica aveva una piega calante, poi la porta si era aperta, dalla terrazza era arrivato il padrone, giovane e alieno, e sui beat del nuovo pezzo che sembrava essere arrivato apposta per lui aveva attraversato la pista con passo sincopato. Comunque sia, il padrone del posto restava lui.
Quando lo spagnolo mi aveva detto delle strane cose che faceva il suo nuovo compagno di casa inglese, ero sicuro che avesse praticato yiquan, uno strano stile molto recente ma sempre più famoso in occidente. Spostare i mobili del salotto e stare fermo per mezz’ora con le braccia alzate? L’avevo già sentita, questa storia. Anche lui era giunto qui in cerca. Non era la prima volta che veniva in Cina, mi aveva raccontato quando finalmente, senza fretta, ci eravamo incontrati. Uno dei tizi che l’aveva più colpito, nello shandong o nel dongbei, era uno che insegnava bajin. Era stato una guardia del corpo, e il suo era uno stile da guardie del corpo. Non ho tuttora bene idea di cosa sia, uno stile da guardie del corpo, ma mi faceva piacere sapere che nonostante tutto ci fosse ancora chi dedicava il suo gongfu a certe occupazioni.
Di lì a poco la musica era scemata e il dj era sceso dalla pedana a raccogliere un po’ di complimenti, salvo che mentre una tipa se lo stava metaforicamente leccando, la musica era ripartita, il dj mi aveva guardato con un bel sorriso e aveva preso a ballare da solo, la sua musica, lasciando la tipa a cercare di recuperare un ritmo che dentro di sé proprio faticava a trovare. Ancora un po’, ed era tempo di andarsene a vedere la ospite del mio amico cosa stesse facendo. Eravamo indecisi sulla meta, ma sapevamo che "cavalcare la tigre è più divertente che scenderne", uscimmo dal locale e ci dirigemmo, sicuri, in cerca di cibo. Io non avevo molta fame, mentre ci addentravamo nel quartiere dei locali, an unsuaul den of sin, come ebbe a dire l’amico. Uno degli spiedinari vinse la nostra attenzione, aiutato dal trovarsi di fronte ad uno spaghettaro. L’amico mi tentava con ogni tipo di carne, di pollo, di maiale, di maiale con peperoni, di montone, ma piuttosto ne ero repulso. Poi la sua attenzione si spostò su una zucchina, chiese se c’erano funghi e lì stavano. Ero a posto. Entrammo nella spaghetteria, con lo spiedinaro che ci confermava che ci avrebbe presto portato il cibo. L’amico andò ad ordinarsi la sua ciotola di spaghetti in brodo, mentre io mi sedevo e tenevo lo sguardo sulla sua borsa. Era tornato con gli spaghetti, e io avevo provato quel lieve imbarazzo che si prova quando al tavolo uno sta mangiando e uno no. Sottigliezze locali che avevano aperto una discussione sul valore culturale del mangiare in Cina e in Italia, e che si erano ritirate all’arrivo degli spiedini di pollo, di maiale, e soprattutto dei funghi. Non l’avevo neanche visto pagare, e stasera non era un mio problema.
-Non sembri molto uno studente, con quella borsa.
-E cosa sembro?
-Non uno studente.
Vesito di nero, col berretto cambogiano marrone e il cappuccio del maglione tirato su, non sembrava un laowai tipico. Eravamo usciti dallo spaghettaro, l’ospite si era fatta sentire per messaggio chiedondo di dare un segno, ma eravamo dietro l’angolo e desistetti dal risponderle. Lo stile del nuovo locale aveva lasciato perplesso il mio amico, io avevo già avuto il piacere – this place ain’t too bad, except for selfrespect – mi limitai a commentare. Quando trovammo l’ospite, e le sue amiche e a quanto pareva i suoi nuovi amici, non fummo salutati molto calorosamente. Non fummo salutati affatto. Quando mi ero avvicinato alla ospite, con la quale i miei rapporti non erano troppo chiari, uno spilungone mi si era parato davanti, e mi aveva stretto la mano, molto.
La tranquillità produce senso di sicurezza. Venendo dal freddo, le mie mani non erano calde, mentre quella dello spilungone che doveva essere da non poco tempo al caldo nel locale, la sua mano era calda. Gli lasciai la mia mia mano, assorbendo il suo calore, mentre molto lentamente la sua aggressività da guardiano della porcilaia scemava insieme al suo calore. Ancora poche reazioni dalla ospite. Tornai dal mio amico, che restava alle spalle di tutti, sempre perplesso ma di buon umore, riuscendo a trovare perfino qualcosa di interessante nella musica. Avendo a che fare soprattutto con le schiene di tre ragazze, tra cui la ospite, non mi era molto chiaro quale fosse la situazione, ma non avevo fretta, né sembrava averne il mio amico. Nel frattempo mi ero accorto, non era difficile, della presenza di una ragazza che aveva messo dischi nel locale precedente. Alta, prosperosa, un gran figone. In un vestito nero che non riusciva a nascondere il seno decisamente atipico. Era in compagnia di un ragazzo cinese che anche lui era stato nell’altro locale, un perticone inutile che fungeva solo da piedistallo per lei.
Non ero stato l’unico a notarla. Un tracagnotto piuttosto aggressivo le si era avvicinato, con l’immancabile amico che lo teneva o per le spalle o per un braccio, a seconda degli angoli di attacco. Il tracagno doveva essere vicino alla quarantina, di anni e di tasso alcolemico, ma sapeva molto bene quello che stava facendo. Il perticone della gnocca era appunto del tutto inutile ad arginarlo, sembrava più a disagio di lei che sorridendo evitava quanto possibile di farsi sfiorare da tracagno. Il mio amico aveva appena finito di esprimere considerazioni precise sulla generazione delle risse per femmine e alcool in Cina, quando erano arrivati tracagno e amico.
Il corpo non mente. Basta un angolo, non servono parole. Il mio petto e il mio sguardo basso coprivano un arco che includeva perticone, gnocca, tracagno e amico. Non c’era bisogno di muoversi troppo o agitarsi, né tantomeno avrei potuto esprimermi utilmente in cinese. Tracagno si spostava, trascinandosi dietro il gracile amico, interponendo altre persone, spesso i camerieri e avvicinandosi a più riprese alla ragazza. Arrivai a dovermi mettere direttamente alle loro spalle, col petto che lasciava solo un piccolo angolo aperto su di loro, prima che se ne andassero.
Era stata l’occasione per raccontare un po’ di cose al mio amico. Della sensazione che a volte avevo di avere presente la posizione di tutte le persone attorno a me e degli angoli dei loro corpi e di come si stessero relazionando ad altri corpi. O del fatto che avevo percepito la minaccia in arrivo. Lui l’aveva percepita? L’aveva percepita, ma non come minaccia. Effettivamente, non c’era niente che mi riguardasse in tutta la situazione, però ero richiamato ad evitare menate alla tipa, la supergnocca zoccoleggiante che aveva prontamente scaricato il suo amico andando a fare gli occhi dolci di qua e di là, cercando di convolgere anche me che continuavo a tenere la testa comodamente abbassata. Quando gli avevo detto, all’amico, che quella dj era proprio "a bitch" lui aveva commentato che in effetti si era limitata a tirare fuori un cd dopo l’altro e caricarlo, e poi passava l’incarico di mixare a un altro tipo, proprio un comportamento del cazzo. Non era quello che intendevo io ma erano le quattro passate ed era comunque un’osservazione interessante.
Non era passato molto tempo quando tracagno era tornato, questa volta accompagnato da un amico più mansueto e più robusto. Mi ero tenuto a distanza, incuriosito da come avrebbe manovrato tracagno a questo giro. Non era andato molto per il sottile, si era avvicinato alla ragazza e cercava di appoggiarle una mano sul braccio. Era seguito qualcosa di non chiaro, che includeva almeno tre camerieri con vassoi rotondi carichi di spessi bicchieri di plastica marrone pieni di dadi, un foglietto di carta una penna e me. Tracagno si teneva alle spalle l’amico robusto mentre cercava di farsi dare il numero dalla ragazza. L’amico teneva in mano un vassoio con dadi, e con quello più meno faceva diga, creando uno spazio di presuntq non approssimazione nel quale mi ero introdotto lasciandomi girare attorno al vassoio rotondo che lui, per bloccarmi, aveva fatto ruotare, senza rendersi bene conto che così io stavo arrivando a pormi proprio tra tracagno e la gnocca. Quando se n’era accorto era troppo tardi, io mi ero interposto, lui aveva cominciato ad alzare la voce e io avevo messo su la mia faccia più idiota. Avevo danzato con un vassoio, senza neanche sapere bene cosa stessi facendo, era stato inaspettato e sorprendente. Alla fine tracagno se n’era andato insieme all’amico, la supergnocca era tornata a flirtare a giro, e il mio amico aveva trovato che una delle tre schiene che avevo avuto il piacere relativo di osservare fino a quel momento voleva tornare a casa, la stessa casa in cui avrebbe dormito lui. L’ospite no, sembrava intenzionata a restare lì.
Le comunicazioni tra di noi continuavano a restare non esistenti, io non facevo grandi sforzi, e ora che l’amico se n’era andato, ero decisamente da solo, in una situazione non amichevole. Pure un poco ostile. Da quando eravamo arrivati c’era in corso questa specie di gioco delle coppie che stonava profondamente rispetto all’atmosfera autistica sincera e soprattutto cinese del locale precedente. Qui c’erano solo laowai, codici comportamentali diversi, musica house con testi subliminali di scarso gusto, e soprattutto tanto tanto testosterone. C’era un enorme investimento in capitale sociale, erano tutte transazioni commerciali non monetarie volte a stabilire gerarchie e fedeltà, vincitori e vinti. Il mio amico mi aveva salutato avvertendomi che la tempesta sarebbe arrivata adesso.
Ci aveva messo un po’ a montare, la tempesta. Io mi ero trovato a sedermi sulla ringhiera di fronte ai divanetti su cui era seduta la maggior parte della compagnia, e man mano avevo osservato polarizzarsi tutta la popolazione: io da una parte, immobile, senza guardare nessuno negli occhi, loro tutti, alla fine, sui divanetti. E poi era scoppiata la tempesta.
Con un abbinamento cromatico non indifferente, l’ennesimo tizio più alto di me, maglione giallo girocollo e colletto di camicia nera che ne spuntava, aveva iniziato a passarmi davanti più volte, iniziavo a chiedermi se, nonostante i miei tentativi di non toccarlo con le ginocchia che sporgevano, ci provasse gusto. O volesse stabilire un contatto. Da seduto aveva già provato a relazionarsi ma non l’avevo molto considerato, concentrato com’ero sulla ospite e sul suo nuovo ambiente. Era appena venuto a mancare un tassello importante nella geometria sociale del nostro comune entourage, con grande sollievo di alcuni e con più dispiacere mio di quanto immaginassi, e lei stava rapidamente ricostruendosi una vita sociale che in precedenza il suo ragazzo aveva non poco influenzato. Il tardivo emulo di sting, che si guadagnò questo nome con i suoi maglioni a strisce orizzontali gialle e nere nei primi tempi della new wave inglese, si era finalmente deciso a creare il contatto, e invece di darmi il culo per una volta mi si era parato davanti.
-E comunque,- mi aveva chiesto – chi cazzo sei?
Io l’avevo guardato con la faccia più inespressiva che avevo. Facevo più attenzione al suo gesticolare attorno alle bottiglie sul tavolo che a lui, a dire il vero. La prospettiva di una bottigliata nella gola, che non è quella con cui volete normalmente affrontare una serata tra amici, non mi appassionava troppo. Lui aveva continuato a chiedermi poco gentilmente quale fosse il mio nome, io sentivo le mie pulsazioni aumentare in intensità più che in rapidità.
-Chi sei?- gli avevo chiesto.
-Stai seduto al mio tavolo, mi dici chi cazzo sei?- Mi ero guardato bene dal toccare alcunché su quel tavolo, con l’eccezione di un cubetto di ghiaccio che mi ero sciolto nelle mani per abbassare un po’ la temperatura. Ma quelli li offre la casa. Quindi non dovevo niente a nessuno.
-Il tuo tavolo? Bello…-
-Questa finisce proprio male!- aveva detto lui, e nel frattempo i suoi amici si erano avvicinati, e lo stavano invitando a non avere il solito carattere di merda, visto che io non mi stavo facendo troppo impressionare.
-Allora mi dici chi cazzo sei?-
Al che io avevo ritenuto essere arrivato il momento, e mi ero spento la sigaretta tra le dita, sorridendo. E’ una di quelle cose che ho scoperto di recente di essere in grado di fare senza averla mai allenata, come i calci laterali altezza testa e altre sciocchezzuole, regali inaspettati del taichi.
-Ciao, io sono gianni,- aveva detto uno dei suoi amici, gentilmente offrendomi la mano, – come ti chiami?-
-N., nice to meet you,- gli avevo risposto con un grande sorriso stringendogli la mano. Dopo di che mi ero presentato anche all’altro ragazzo che era lì, aggiungendo che in effetti mi ero presentato anche con l’agitato, ma probabilmente non ci aveva fatto attenzione. Al che Sting aveva sbottato, dicendo che io non gli avevo detto proprio un cazzo, che poi era vero, mi ero presentato col primo spilungone ma erano le sei passate, ed era stata una considerazione comunque sia di un certo effetto.
Mentre si andava a sedere pure lui sul divanetto, aveva accusato i suoi amici, chiedendogli se volessero spalleggiare me o loro. Alla fine, forse grazie anche a questo sketch, l’ospite e la sua amica avevano deciso di andarsene, avevamo raccattato uno spagnolo in drastiche condizioni etiliche ed eravamo usciti. In fondo, ero lì per loro. Continuavano a ignorarmi, ma all’improvviso sulla via di casa avevano iniziato a parlare male dell’inglese agitato, al cui tavolo avevano passato tutta la sera.